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martedì 7 dicembre 2010

I sondaggi sulle intenzioni di voto

Da settimane il TG di La7, diretto da Mentana, diffonde i risultati di un sondaggio eseguito da EMG sulle intenzioni di voto degli italiani. Il TG è fatto bene, ma anche Mentana non sfugge alla tentazione comune di ricavare impunemente conclusioni affrettate dai dati.

A ogni puntata il risultato riportato dai principali partiti oscilla di piú o meno lo 0.2-0.4 % e su queste oscillazioni si imbandiscono teorie su quale evento abbia causato tali sensibili variazioni delle percentuali. Stiamo parlando, è il caso di ricordarlo, di oscillazioni di qualche permille su percentuali dell'ordine del 25 % su 1000 intervistati.

Se si intervistano 1000 persone a caso e il 25 % si dichiara elettore di centro-destra, significa che 250 persone hanno espresso questa intenzione. La statistica, che in questo caso è binomiale, dice che in questo modo si conosce la popolazione con un errore dell'ordine della radice quadrata di 250, che è 16 (è un po' piú complicato di cosí, ma per quanto stiamo per affermare è irrilevante). Lo 0.4% di un campione di 1000 persone significa che il campione degli elettori di centro destra si è modificato, da un'intervista all'altra, di 4 persone!

Che razza di conclusione si può trarre da ciò? È quel che ci si aspetta, semplicemente per il fatto che il campione è di natura statistica. Anzi, mi sorprende che non sia piú variabile di cosí. Probabilmente perché si applicano tecniche correttive che riducono l'errore, ma non possiamo trarre conclusioni nette da oscillazioni cosí piccole. L'unica conclusione che se ne trae è che non è cambiato nulla.

lunedì 6 dicembre 2010

Wikileaks

È un po' che non scrivo sul blog. Durante le campagne elettorali governi e giornali si guardano spesso bene dal comunicare numeri, che sono oggettivi e dunque "pericolosi". La fisica però non è fatta solo di numeri. Anche le definizioni sono importanti. Perciò estendo il mio blog alla discussione sulle definizioni che sui giornali si danno dei fenomeni presi in considerazione.

Un esempio molto attuale è il caso Wikileaks. Da quasi tutti definito un "sito pirata". Pirata? E perché? Cos'è che definisce un pirata? Pirata è colui che (cito dalla Treccani) "assale e depreda a proprio esclusivo beneficio navi di qualunque nazionalità, il loro carico, le persone imbarcate, o anche le popolazioni costiere, contro ogni norma di diritto nazionale e internazionale".

Un pirata, dunque, è sostanzialmente un ladro, il quale, a differenza dei comuni ladri, esercita in mare e lungo le coste. Per estensione si può definire pirata chi si appropri indebitamente della proprietà altrui, in spregio alle normative internazionali (perché solitamente i ladri agiscono all'interno di una Nazione, mentre i pirati operano spesso in acque internazionali).

Si definisce pirata anche chi esegue copie non autorizzate di opere dell'ingegno, come libri, dischi e software. Non condivido questa definizione perché per essere un pirata occorre sottrarre qualcosa a qualcuno. Chi copia un CD non sottrae materialmente nulla a nessuno. Omette di pagare un diritto, l'acquisizione del quale è, per quanto mi riguarda, è discutibile. Sarebbe come definire pirata chi non paga il bollo dell'auto o il canone Rai, o chi si imbuca allo stadio per vedere la partita senza pagare il biglietto. Tornerò sull'argomento, perché è importante.
E Wikileaks perché è un sito pirata? Certamente non sottrae nulla a nessuno. Sottrarre informazioni non è come rubare: non si sottrae il possesso di qualcosa (l'informazione) a chi la detiene. L'informazione rimane nella disponibilità del soggetto da cui viene ottenuta, perciò non si tratta di un furto. Divulgare notizie riservate, poi, non è un reato. Lo è per chi ha giurato di mantenere riservata una notizia, non per chi la pubblica. Invece di perseguire e criminalizzare chi pubblica la notizia, si dovrebbe perseguire chi quelle notizie le ha fornite. Altrimenti si dovrebbe perseguire ogni giornalista che viene in possesso di notizie a lui non destinate. Dunque non si può parlare di violazione di norme internazionali. Per di piú i referenti del sito non agiscono nel loro esclusivo interesse. Probabilmente agiscono anche nel loro interesse, ma non esclusivamente.

Vogliamo poi parlare dei tentativi di censurare il sito fatti da chi, allo stesso tempo, sostiene con forza la campagna anti-censura contro il Governo cinese che tenta di fare lo stesso con Google?

Wikileaks non è un sito pirata perché nessuna delle caratteristiche attribuibili a un pirata possono essere attribuite al sito o a chi lo controlla. Con questo non voglio dare alcun giudizio di merito, anche se ho le mie idee in proposito (e non ho difficoltà ad ammettere che considero utile l'azione di un sito come Wikileaks), ma, come diceva Moretti "le parole sono importanti". Se si va davanti all'opinione pubblica e si afferma, come ha fatto il Ministro Frattini, che Assange andrebbe arrestato per i gravi crimini che ha commesso, sarebbe il caso di spiegare anche quali siano questi gravi crimini. Ma temo che nessuno sia in grado di dirlo.

venerdì 3 settembre 2010

Gli insegnanti costano troppo

Il Ministro Gelmini, in questi giorni, parlando della vicenda dei "precari", ha fatto sapere di considerare uno scandalo il fatto che il 97% delle risorse economiche destinate alla Scuola, pari complessivamente a 43 miliardi di euro, sia destinato agli stipendi, facendo intendere che queste risorse vengano integralmente spese per gli stipendi degli insegnanti.

Facciamo un po' di conti. Sempre secondo le dichiarazioni del Ministro, gli insegnanti in Italia sarebbero 760000. Ammettendo che 43 miliardi di euro siano la cifra complessiva, il 97% corrisponde a poco meno di 42 miliardi di euro. Dividendo questo numero per il numero degli insegnanti si ottiene lo stipendio medio annuale per insegnante: circa 55000 euro. Benché lordo, si tratta di uno stipendio piú che rispettabile! Sono certo che qualunque insegnante, con anzianità qualsivoglia, metterebbe subito la propria firma su un contratto del genere. In realtà gli stipendi degli insegnanti sono ben al di sotto di questa cifra. Sono circa la metà di questa.

Dunque o i dati sono falsi (ma non credo) oppure il Ministero spende il 97% del suo budget in stipendi, ma non certo per gli stipendi degli insegnanti!

Vale anche la pena considerare un altro aspetto. Il fatto che l'Italia spenda il 97% delle proprie risorse in stipendi, nel comparto dell'istruzione, non significa necessariamente che gli insegnanti (o comunque i dipendenti) siano troppi. Significa che le risorse profuse nel comparto sono poche. L'Italia spende il 4.6 % del PIL nel comparto complessivo dell'istruzione. La media europea è del 5.2% e tra gli Stati dell'Unione spicca la Danimarca che investe l'8.4 % del proprio PIL. Se L'Italia spendesse per l'istruzione in linea con l'Europa le cose starebbero diversamente.

Considerato infatti che il PIL italiano è di circa 1500 miliardi di euro, una spesa del 4.6 % corrisponde a circa 69 miliardi di euro. Siccome, secondo il Ministro, il budget per la Scuola è di 43 miliardi, questo vuol dire che l'Italia investe il 62.3 % del budget per l'istruzione nella Scuola.

Se l'Italia spendesse il 5.2 % del suo PIL nel comparto, per la Scuola disporrebbe di 48.5 miliardi (il 62.3 % del 5.2 % del PIL). La spesa per stipendi resta fissa (42 miliardi), dunque in percentuale, la spesa complessiva ammonterebbe all' 87.5 %. Ci sarebbero circa 5 miliardi da investire. Considerata una popolazione di studenti di circa 7 milioni e mezzo, si renderebbero disponibili circa 700 euro per studente (circa 25000 euro per classe!). L'investimento, oggi, è invece circa 5 volte piú basso. Se, per assurdo, arrivassimo alle vette della Danimarca, spenderemmo solo il 62 % in stipendi: il resto sarebbe tutto investimento (quasi 100000 euro per ogni classe).

Dunque di chi è la colpa? Degli insegnanti che assorbono troppo per gli stipendi o del Ministro dell'Economia che non spende abbastanza?

giovedì 2 settembre 2010

La tariffa bioraria: ennesima fregatura per i consumatori

I fornitori di energia elettrica, in questi giorni, stanno inviando ai propri utenti una comunicazione nella quale si annuncia, pomposamente, l'avvio di una grande novità in bolletta: la tariffa bioraria! Il testo è evidentemente improntato all'ottimismo, cercando di far passare il messaggio per cui, per l'utente, si tratta di un grande vantaggio. Ci fanno questo favore, insomma. Se però si legge con attenzione si scopre che l'energia costerà, sí, meno nelle ore notturne e nei festivi, ma costerà di piú nelle ore diurne dei giorni feriali. Non è dato di sapere i nuovi costi dell'energia, quindi difficilmente un utente può calcolare l'eventuale risparmio. Tuttavia un indizio c'è: per risparmiare bisognerà consumare almeno il 66 % dell'energia nelle ore notturne. Questo significa, naturalmente, che consumando il 66 % dell'energia nelle ore notturne si pagherà piú o meno come prima, e solo consumando di piú si pagherà meno (ma non si può sapere quanto meno: 1 centesimo? 10 centesimi? 1 euro? 10 euro? Un'idea ce l'avrei :-).

Dubito che qualcuno si trovi anche solamente vicino a questa condizione.
Quindi, a meno di cambiare drasticamente le proprie abitudini, le bollette sono destinate ad aumentare. Gli stipendi no, ma non possiamo lamentarci. Mica ci aumentano le tasse!

Naturalmente possiamo sempre scegliere di utilizzare gli elettrodomestici piú avidi di energia nelle ore notturne: lavatrici e lavastoviglie, per esempio. Cosí la nuova idea dei gestori per farci risparmiare, ci costerà notti insonni e litigi con i vicini di casa per i rumori molesti prodotti da tali apparecchi. Riuscite a immaginare un condominio nel quale tutte le lavatrici funzionano nelle ore notturne? Un'idea geniale, davvero. Preparate i tappi per le orecchie.

Non è che a qualche giornalista viene in mente di chiedere in diretta TV ai promotori di questa grandiosa idea chi ci guadagnerà e perché? Sarei curioso di saperlo. Sono però certo che non sarò io quel qualcuno.

martedì 6 luglio 2010

I ricercatori fannulloni

Titolano piú o meno cosí oggi i giornali, dopo la diffusione dei dati sulla produttività scientifica dei ricercatori e i commenti del Rettore della "Sapienza", Luigi Frati.

Anche in questo caso il titolo a effetto fa perdere il senso della misura. Innanzi tutto è opportuno chiarire che per "ricercatori", in questo caso, si intendono tutti coloro che svolgono attività di ricerca nelle Università. Si tratta di tre diverse categorie: Ricercatori, Professori Associati e Professori Ordinari (d'ora in poi scriverò con l'iniziale maiuscola il ruolo, mentre la funzione sarà indicata dall'iniziale minuscola).

I primi hanno il solo obbligo di svolgere attività di ricerca. Gli altri, invece, i Professori, sono tenuti a svolgere anche attività didattica secondo le norme stabilite dalla legge. Il titolo di professore, infatti, spetta a costoro proprio per questo motivo, cosí come spetta ai Ricercatori (e sono tanti) che svolgono attività didattica perché titolari di un contratto in tal senso (quasi sempre a titolo gratuito).

In questa accezione sono ricercatori (con la r minuscola) tutti: Ricercatori e Professori. Alcuni Professori svolgono anche altre mansioni: hanno funzioni direttive o di coordinamento.

Prima di prendere in esame i numeri, ci teniamo a dire che certamente dei fannulloni sono presenti tra i ricercatori, cosí come ce ne sono tra i medici, gli statali, gli operai, i preti, e persino tra gli imprenditori. Veniamo ora ad analizzare la misura. Il 10 % dei ricercatori è un fannullone. Da dove viene questo dato? Viene dal fatto che (finalmente) l'Università si è dotata di uno strumento informatico (sull'efficienza del quale ci sarebbe molto da dire) che permette di sapere quante pubblicazioni abbia prodotto ciascun ricercatore. Dall'analisi di questi dati emergerebbe che circa il 10 % dei ricercatori non ha pubblicato nulla negli ultimi tre anni. Che significa questo? Sicuramente che c'è una quota di veri fannulloni. Ma significa anche che il 90 % dei ricercatori ha invece prodotto qualche risultato scientificamente rilevante.

Per quanto riguarda il 10 % di cosiddetti fannulloni occorre ricordare che una parte di costoro non ha prodotto nulla di scientificamente rilevante, magari perché svolge altre funzioni (il Rettore, ad esempio, o i Presidi di Facoltà, i Direttori di Dipartimento, etc.). In altri casi possono esserci problemi di natura finanziaria: se non ci sono soldi per fare ricerca è molto difficile riuscire a pubblicare qualcosa. E in molti casi (anche se non sempre) non è facile cambiare l'obiettivo delle proprie ricerche aggregandosi ad altri gruppi, perché le risorse sono poche e quelli che le hanno sono restii a dividerle ulteriormente. Infine è doveroso considerare quei casi in cui la produttività in termini di pubblicazioni può subire forti contrazioni, che di solito portano a una produzione scientifica notevole al termine di un periodo di preparazione. Ad esempio, nel caso del sottoscritto, la preparazione di un esperimento può durare fino anche a dieci anni, durante i quali la produttività in termini di pubblicazioni è scarsissima, ma il lavoro che si fa è intenso. Al termine di questo periodo in genere si pubblica talmente tanto che, in media, si torna a possedere valori di produttività accettabili. Ma sulla scala dei tre anni (cui si riferiscono le statistiche in esame) le fluttuazioni possono essere ampie.

Per concludere: certamente nell'Università, come in tutti i posti di lavoro, vi sono eccellenze e fannulloni, ma se la percentuale di questi ultimi fosse anche del 10% non ci sarebbe affatto da gridare allo scandalo. Quello che stupisce, semmai, è che in un Paese allo sbando come il nostro, nel quale capita frequentemente che si ottenga un posto in un'Università grazie soltanto a conoscenze e parentele, il 90 % dei ricercatori sia ancora in grado di pubblicare articoli di una qualche rilevanza scientifica.