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domenica 22 dicembre 2013

Spending Review

Pochi giorni fa ho ricevuto un "accertamento" da Aequaroma, la società che per il Comune di Roma cura la riscossione dei tributi. Nell'"accertamento", i solerti funzionari della società hanno tenuto a sottolineare che il sottoscritto veniva pesantemente multato (fino al 100% dell'importo evaso negli ultimi 5 anni) perché aveva reso "dichiarazione infedele" relativamente alla superficie dell'appartamento di proprietà da assoggettare alla Ta.Ri. (la tariffa rifiuti). In conseguenza della mia "infedele dichiarazione" il funzionario responsabile mi "irroga" una sanzione pari a euro 1181.36, da sommare, evidentemente, all'importo illecitamente sottratto alle casse del Comune, cui vanno aggiunti i dovuti interessi, per un importo totale di 2443.96 euro!

Dall'attenta lettura del burocratese della notifica (diverse pagine inutilmente piene di "Visto", "Considerato", "Atteso", etc.) apprendo di vivere, secondo quanto "accertato", in un appartamento di 130 mq! E pensare che avevo sempre pensato di stare in una casa troppo piccola! In effetti, rispetto ai 60 mq da me dichiarati, c'è una bella differenza!

Così apro la pagina di Google e cerco uno dei tanti servizi catastali online. In effetti quando ho dichiarato 60 mq mi sono limitato a confermare la superficie già dichiarata dal precedente occupante. Ne scelgo uno, pago 12,50 euro e ottengo, nel giro di 10 minuti, la planimetria del mio appartamento, così come risulta in catasto. Da buon fisico prendo un righello e in pochi minuti ottengo la superficie effettiva del mio appartamento. Sono proprio 60 mq, come io effettivamente avevo dichiarato. Ma nel cercare informazioni su cosa fare scopro, sul sito dell'AMA (la municipalizzata che cura la raccolta rifiuti), che la superficie da assoggettare a Ta.Ri. è solo quella coperta. Vanno esclusi cioè i balconi. Se sottraggo la superficie dei balconi la superficie assoggettabile è addirittura inferiore a quella da me dichiarata (poco male perché apprendo ugualmente che devono però essere incluse le pertinenze - garage e cantine - che non avevo incluso per cui il totale fa 62).

La domanda è: ma come hanno "accertato" che avevo reso "infedele dichiarazione"? A me sono bastati 10 minuti e pochi euro per accedere ai dati registrati in catasto e verificare che la superficie della casa in cui abito non è difforme da quanto dichiarato. Loro come hanno fatto? Viene il sospetto che diano numeri a caso. Qual è il risultato di tutto questo? Che è stato fatto un lavoro di "accertamento" inutile, che però produce carta (altrettanto inutile) che deve essere spedita (inutilmente) all'indirizzo del presunto evasore. Il quale deve a sua volta spendere inutilmente denaro per dimostrare che tale non è. Aequaroma dovrà impegnare inutilmente il suo personale a controllare quanto dichiarato dal presunto evasore e a rivedere, se sarà il caso, le proprie decisioni. Dal momento che si accerterà che ho ragione, dovranno fare istanza di rettifica (altre inutili carte, altri timbri, altro personale inutilmente coinvolto, altro tempo perso) e tutti avranno perso qualcosa (tempo e denaro, per non parlare della salute).

Se invece di pagare gli stipendi di funzionari pagati per pescare cittadini a caso e far finta di aver fatto un accertamento (perché questo credo succeda) dal quale risulta una superficie maggiore di quella dichiarata si pagasse una borsa a un laureando in informatica, questi potrebbe nel giro di poche settimane metterli in contatto diretto con la banca dati del catasto e incrociare i dati della Ta.Ri. con quelli del catasto (e magari di altre entità). Acquisendo le mappe online non sarebbe difficile calcolare automaticamente le superfici da assoggettare a tariffa e invece di attendere che sia il contribuente a calcolarla, potrebbe essere il Comune a indicarne l'importo sulla base di quanto risulta presso il catasto. Se a me sono occorsi 10 minuti per dimostrare la palese assurdità dell'"accertamento", con un sistema del genere basterebbero pochi secondi non solo per evitare inutili spese e inutili carte, ma anche per scovare i veri evasori.

Gli abitanti di Roma sono quasi 3 milioni. La Ta.Ri. la pagano le famiglie (e le imprese, ma limitiamoci per ora solo alla Ta.Ri. domestica), composte mediamente da 2.5 persone, perciò sarebbero da controllare 1 milione e 200.000 posizioni. Considerato che con un sistema di interrogazione automatica non serve sicuramente più di 1 secondo per eseguire tutte le operazioni del caso, occorrono poco più di 330 ore di CPU: due settimane di lavoro per un singolo PC, con un solo core di calcolo, come ormai si trovano solo al museo. Insomma, basterebbe un'inezia per far sì che, in pochi giorni, si ponga fine alla piaga dell'evasione contributiva in questo settore, alle cartelle pazze che ne conseguono e ai mal di testa dei contribuenti che devono leggersi manuali di decine di pagine scritte in oscuro burocratese per capire quanto devono versare.

Lo so: sembra facile! Ma il bello è che lo è! E se non fossimo il Paese governato da gente che di questi problemi non se è mai dovuto curare perché ci pensa qualcun altro al loro posto, forse potremmo cominciare a essere un Paese semplicemente normale.

lunedì 17 giugno 2013

Ridurre l'evasione...

...e contemporaneamente rilanciare i consumi, semplificando enormemente gli adempimenti fiscali. Sembra impossibile, ma secondo me si può. Premetto che l'analisi che sto per fare è sicuramente semplicistica e ci sono troppi dettagli trascurati, ma quel che conta, come sempre, sono gli ordini di grandezza, e questi ci dovrebbero essere.

Partiamo, come sempre, da qualche dato (che per l'occasione ho preso da una notizia su Repubblica che riportava dati forniti dall'Agenzia delle Entrate). Il reddito medio di un lavoratore dipendente è stato, nel 2011, di 19810 euro. Quello di un lavoratore autonomo 41320 (per lavoratore autonomo s'intende un "professionista che presta la propria opera a un cliente obbligandosi di volta in volta secondo i casi", come un avvocato, un dentista, un idraulico, un elettricista, un muratore, etc. Non un commerciante o un industriale, per intenderci).

Per non fare la solita demagogia, osservo subito che anche i dipendenti possono evadere, se fanno un secondo lavoro in nero o se fanno un accordo sottobanco con il datore di lavoro. Per questo nel nostro schema le classi "lavoratore autonomo" e "lavoratore dipendente" non stanno a rappresentare le categorie cui si riferiscono nei fatti, ma a persone che, rispettivamente, hanno la possibilità di nascondere una parte degli introiti al fisco oppure che, al contrario, non ce l'hanno.

La normativa sull'IRPEF è complessa. Semplificando, gli autonomi possono detrarre dal reddito 4800 euro. Sul rimanente pagano il 23 % fino a 15000 euro. Oltre i 15000 euro e fino ai 28000 si paga il 27 %. Sui redditi compresi tra 28000 e 55000 euro, invece, si paga il 38%. Calcoliamo l'imposta dovuta dal nostro autonomo. Dai 41000 euro circa togliamo 4800, quindi il cosiddetto reddito imponibile è di 36200 euro. Sui primi 15000 il lavoratore paga il 23 %, pari a 3450 euro. Sul reddito compreso tra 15000 e 28000, pari a 28000-15000=13000 euro, paga 3510 euro (il 27 %), mentre sul resto (36200-28000=8200 euro), si paga il 38 %, pari a 3116 euro. Complessivamente le tasse dovute dall'autonomo ammontano a 3450+3510+3116=10076 euro. Di fatto l'incasso reale del professionista è pari a circa 31000 euro.

Il lavoratore dipendente può detrarre 8000 euro dal suo reddito. L'imponibile quindi è di 11810 euro, su cui paga il 23 %, perché inferiore a 15000 euro: 2716 euro. In pratica la busta paga del dipendente sarà di (19810-2716)/12=1424 euro. Al dipendente restano in tasca 19810-2716=17094 euro e all'autonomo 31244. Lo Stato incassa 12792 euro, pari al 21 % del reddito complessivo prodotto dai due lavoratori (che possiamo assimilare al PIL).

Il dipendente non ha alcun vantaggio nel chiedere all'autonomo di documentare eventuali spese e l'autonomo, a maggior ragione, cerca di evitarlo perché su quel denaro paga un mucchio di soldi in tasse. Non avendo alcun vantaggio dalla spesa, il dipendente cerca anche di evitarla, provocando una contrazione dell'economia.

Se invece il dipendente potesse detrarre tutto quello che paga dal reddito avrebbe interesse a spendere. Proviamo a costruire un modello in cui l'imponibile è costituito da ciò che non si spende (ricordiamo che la quantità di denaro circolante è costante - o quasi - e quindi possiamo sempre assumere che in un anno uno dei due abbia speso e l'altro abbia solo guadagnato). In questo modello, se il dipendente spende 13000 euro all'anno dovrebbe avere un imponibile di 20000-13000=7000 euro (approssimando a 20000 euro il suo reddito per fare cifra tonda). L'autonomo, invece, avendo incassato i 13000 euro dal dipendente, avrà un imponibile di 41000+13000=54000 euro. La cifra complessiva è sempre la stessa: 54000+7000=20000+41000=61000. Se vogliamo che lo Stato incassi sempre dell'ordine dei 13000 euro dobbiamo applicare un'aliquota pari a 13000/61000=21% (come prima, evidentemente).

A questo punto il dipendente pagherebbe 7000 ⨉ 0.21=1470 euro di tasse (circa 1500). Quindi dal suo datore di lavoro, l'anno successivo, dovrebbe ricevere uno stipendio netto pari a (20000-1500)/12=1542 euro al mese. Il dipendente così dispone di più di 100 euro in più da spendere, ed è quindi invogliato a farlo (anche perché piú spende e meno paga di tasse). L'autonomo, dal canto suo, dovrebbe invece pagare 54000 ⨉ 0.21 = 11340 euro (diciamo 11000 per semplicità). Gli restano dunque 54000-11000=43000 euro (contro i 31000+5000=36000 che gli sarebbero rimasti non dichiarando il reddito reale).

Sembra impossibile, eppure lasciando invariato l'incasso per lo Stato sarebbero tutti più contenti. L'autonomo pagherebbe meno (perché costretto a pagare il dovuto) e il dipendente prenderebbe uno stipendio più alto. Naturalmente le cifre complessive sono sempre le stesse: le tasse sui 5000 euro non pagate dal dipendente sono pagate dall'autonomo. Il fatto è che la detrazione di 8000 euro per i dipendenti e di poco meno di 5000 euro per gli autonomi è del tutto irragionevole! In realtà ciascuno spende molto di piú, perciò alla fine in tasca resta molto meno di quanto resti effettivamente sulla carta.

Ciò non toglie che, oltre a essere piú equo, questo sistema rende tutti piú contenti.

Inoltre, con questo meccanismo il dipendente ha interesse a spendere i suoi soldi, perché quello che spende in beni e servizi non lo paga di tasse. Lo Stato non ci perde se il dipendente spende in Italia, perché recupera dalla controparte i soldi che il dipendente non ha versato. Questo è un bene perché incentiva il dipendente a spendere i suoi soldi in Italia, contribuendo all'economia, sopra tutto alla domanda interna (perché è chiaro che il meccanismo funziona se tutti pagano le tasse nello stesso Paese). È ovvio quindi che occorre introdurre meccanismi correttivi per i casi particolari (acquisto di materie prime e prodotti dall'estero, etc.), ma come dicevamo all'inizio quel che conta sono gli ordini di grandezza. Uno Stato dovrebbe essere in grado di calcolare esattamente le aliquote da applicare e i meccanismi correttivi da apportare una volta deciso il sistema.

Ma come si fa dal punto di vista burocratico? Mica possiamo pretendere che tutti conservino migliaia di scontrini, fatture e loro parenti e facciano le somme una volta l'anno! Semplice: basta fare una regola secondo cui sono ammesse alla detrazione le spese sostenute in modo tracciabile: bonifico, assegno, carta di credito. Se vado al supermercato e pago con carta di credito, l'importo lo posso detrarre allegando come prova l'estratto conto della carta di credito (non centinaia di scontrini). Se viene l'idraulico e lo pago con carta di credito, idem. Lo stesso vale se pago il taxi, le bollette, i biglietti del cinema con lo stesso metodo. Al massimo devo conservare 12 fogli (uno per mese) per mezzo di pagamento. Potrei persino obbligare le banche a emettere, a fine anno, un documento con la certificazione delle spese effettuate con questi metodi nei confronti di soggetti residenti in Italia.

In questo modo la burocrazia è praticamente azzerata, lo Stato non ci perde nulla, tutti pagano meno tasse e nessuno (o quasi) evade il fisco.

domenica 16 giugno 2013

La spesa pubblica e la pressione fiscale

I dipendenti pubblici in Italia sono, secondo un rapporto di Forum PA del 2013, circa 3 milioni e 300.000, corrispondenti al 15% degli occupati totali. Secondo questo stesso rapporto la spesa per i dipendenti pubblici ammonta all'11% del PIL. Il PIL italiano ammonta a circa 1800 miliardi di euro. L'11% di questa cifra ammonta a 198 miliardi di euro. Dividendo questa cifra per il numero di dipendenti si trova che la spesa media per dipendenti è di 60000 euro l'anno (lordi, naturalmente).

Questo numero già appare poco coerente. A meno di non aver male interpretato la voce relativa alla spesa per i dipendenti della pubblica amministrazione del rapporto (forse che, oltre allo stipendio, si conta in quella voce anche qualcos'altro?), dal momento che lo stipendio medio dei dipendenti in Italia si aggira sui 20000 euro lordi annui, sembrerebbe che ci sia uno squilibrio di almeno un fattore 3. Anche a voler ammettere che le statistiche siano viziate, non è difficile capire che lo stipendio medio di un dipendente non può superare i 25-30000 euro lordi all'anno. A meno che i dipendenti pubblici che guadagnano tanto (i dirigenti) non siano troppi! Decisamente troppi! Del resto è ben noto che l'Italia è piena di dirigenti che dirigono sé stessi.

Poiché la pressione fiscale nel Paese è di quasi il 43%, questo significa che lo Stato incassa ogni anno circa 774 miliardi di euro. Di questi ne spende meno di 200 per pagare i dipendenti, perciò dovrebbero restarne almeno 570 (quasi 600, dunque).

La domanda è: dove finiscono tutti questi soldi? È evidente che la spesa pubblica non è fatta solo di stipendi. Ma come abbiamo visto nella cifra che abbiamo calcolato c'è già un fattore 2-3 d'incertezza per cui si potrebbe pensare che almeno in parte la cifra di 200 miliardi dovrebbe includere alcune spese per il funzionamento (affitti, riscaldamento, consumi, manutenzione, etc.). Se tuttavia assumiamo altri 200 miliardi da spendere per il funzionamento generale, restano comunque quasi 400 miliardi la cui destinazione è quanto meno difficile da immaginare.

Ovviamente una buona parte di questi soldi dovrebbe servire a ridurre il debito che però non si riduce (anzi, aumenta), quindi non si può invocare questa voce per spiegare la pressione fiscale così alta. Così, a prima vista, sembrerebbe relativamente semplice procedere a una riduzione sostanziosa della pressione fiscale, almeno nell'ordine del 10-15%, che si tradurrebbe in un risparmio compreso tra i 180 e i 270 miliardi di euro.

Nonostante questo l'abolizione dell'IMU prima casa (4 miliardi) o l'aumento dell'IVA (altrettanto) sembrano mete lontanissime. Qualcuno sa spiegarmi il perché? Qualcuno ci spiega dove finiscono tutti i soldi che paghiamo?